Nel dicembre scorso il sentiment secondo cui il peggio
della crisi in Eurozona era alle spalle stava ancora crescendo. L'onda era
partita qualche mese prima in settembre dopo il lancio delle OMT da parte della
Banca Centrale Europea. Un'ondata di ottimismo, non si può certo definire
consapevolezza tenuto conto che il meccanismo non era ancora stato perfezionato,
che da febbraio 2013 si è andata progressivamente - anche se lentamente - sgretolando,
complice l'accenno di schermaglie sul mercato dei cambi, con relativa minaccia
di guerre valutarie che comunque mantenevano ancora in secondo piano le vicende del
Vecchio Continente (come se ce ne fosse di bisogno per indebolire le monete, visto che tra Yen, Euro e Dollaro Statunitense è difficile decidere chi ha i fondamentali più malandati). Personalmente non ho mai creduto che il
peggio fosse passato mentre sono sempre stato convinto che provvedimenti
monetari, ancorché ciclopici ed inediti, pur fornendo una consistente cortina fumogena
poco avrebbero potuto in assenza di quelle riforme istituzionali che a lungo, peraltro
specie in sede europea, sono state invocate. Gli eventi delle ultime settimane
non hanno fatto che confermare tale convincimento e le collegate preoccupazioni: il rifiuto popolare, implicito nel risultato elettorale italiano, delle riforme
previste ed imposte dalle autorità europee è il segnale di un ritorno alla
ribalta della crisi, solo temporaneamente uscita dagli schermi ma mai
allontanatasi dall'Eurozona. Gli elementi che lasciavano prevedere un suo
ritorno sono oltre alla mancanza, in primis, delle riforme strutturali - alcune annunciate ma non implementate nei tempi opportuni -, la natura
strutturalmente ciclica degli episodi critici in campo economico-finanziario, inasprita
in questa fase dal deterioramento della situazione dell'economia reale a cui si
sono aggiunti infine fattori politici di rilievo. "Last but not
least" l'incertezza di fondo della banca Centrale ad intraprendere un
intervento radicale, sebbene il lancio delle OMT rappresenti certamente un
elemento forte di discontinuità.
Risulta oggi difficile negare la natura "carsica" della crisi
dell'Euro: emerge rutilante e poi scompare temporaneamente quando le misure
monetarie tamponano l'urgenza. Il punto sorprendente è come la politica europea
risponda in modo pavloviano a questa ciclicità: come lo stimolo doloroso si
allontana la malattia europea esce dalla visibilità degli attori più importanti. Essi, in tal modo, non vengono spinti a prendere i necessari provvedimenti strutturali adottando una cura radicale, ma preferiscono tirare a campare, "kicking the can" direbbero gli anglosassoni. Così
la Francia ha speso settimane in un aspro dibattito sul matrimonio gay mentre la
stessa Germania si è permessa il lusso di un prolungato dibattito sul sessismo
e lo sciovinismo, senza parlare dell'Italia dove le questioni di costume non hanno mai abbandonato la ribalta accompagnando l'onnipresente campionato calcistico nazionale ed i vari tornei internazionali (panem et circenses, la storia non si ripete ma fà la rima). Infine tutta l'Europa improvvisamente è sprofondata nell'emozione per la
scoperta di carne di cavallo in alcune confezioni di lasagne surgelate. Fortunato
il continente che è in grado di dedicarsi a questioni esistenziali. Una cosa è
chiara: la crisi dell'euro è ciclica come l'attenzione che riceve ed è fastidioso
constatare quanto essa sia diventata ormai prevedibile. Ci vuole la paura continua di un pericolo imminente per stimolare i politici europei ad agire e la mancanza di azione
politica è tanto più sorprendente se si considera che il flusso costante di
dati economici poco incoraggianti non ha di fatto, in alcun momento, suggerito che la crisi fosse
davvero finita. Mentre una falsa calma si era diffusa in tutto il continente
grazie all'anestetico monetario, gli indicatori hanno infatti continuato - almeno nella media - a puntare tutti
nella stessa direzione critica. La speranza che il prossimo recupero di
efficienza produca una soluzione strutturale è purtroppo labile, il punto è che
il tempo sta ormai per scadere e forse - anzi probabilmente - siamo già all'ultimo giro in attesa del:
"Si salvi chi può!". Le conclusioni di portafoglio sono quasi banali: corti sull'Euro, specie contro dollaro statunitense, canadese ed australiano; lontani, se non corti, dal debito pubblico italiano, tenuto conto in particolare che una posizione lunga sul dollaro statunitense, almeno sul breve periodo, è ormai chiaramente un "win-win" mentre, quasi paradossalmente, il Budget Sequestration rinforza tale tendenza.